L’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della Pubblica Amministrazione

Un principio fondamentale del nostro ordinamento è quello secondo il quale ogni spostamento patrimoniale deve avere una propria giustificazione causale.

In altri termini, il nostro ordinamento non ammette spostamenti patrimoniali privi di giusta causa.

Tale assunto rappresenta la ratio sottesa all’azione di ingiustificato arricchimento di cui all’art. 2041 del codice civile.

Si tratta di una norma sussidiaria e di chiusura che opera ogni qualvolta lo spostamento patrimoniale “ingiustificato” non sia vietato e/o sussumibile in altre fattispecie previste dall’ordinamento.

Ai fini della proponibilità dell’azione, i presupposti richiesti sono: (i) l’arricchimento di un soggetto, da intendersi quale aumento del patrimonio o risparmio di spesa; (ii) il danno patrimoniale subito da un altro soggetto da cui discende l’impoverimento dello stesso; (iii) l’unicità causale tra arricchimento e danno; (iv) l’assenza di una giusta causa.

A fronte di tali presupposti, si evince come nessuna rilevanza venga riconosciuta all’elemento soggettivo (dolo o colpa).

Da tale mancanza si desume il carattere residuale dell’azione di ingiustificato arricchimento; difatti, ogni qualvolta l’ingiustificato arricchimento sia doloso o colposo, quest’ultimo rappresenta un danno ingiusto che potrà essere risarcito ai sensi e per gli effetti dell’art. 2043 c.c..

L’assenza dell’elemento soggettivo nell’azione di ingiustificato arricchimento spiega altresì il motivo per cui l’art. 2041 c.c. non prevede un obbligo risarcitorio ma un obbligo di indennizzo, entro i limiti dell’arricchimento.

La sussidiarietà dell’azione emerge altresì considerando che la stessa è proponibile solo qualora l’arricchimento sia stato procurato dallo stesso soggetto che si è arricchito; diversamente, qualora lo spostamento patrimoniale sia posto in essere dal soggetto depauperato, quest’ultimo potrà agire giudizialmente con la diversa e non sovrapponibile azione di ripetizione dell’indebito (art. 2033 c.c.).

Svolto questo breve inquadramento generale, si deve considerare la specifica ipotesi in cui un privato abbia subito un ingiustificato arricchimento da parte di una Pubblica Amministrazione.

Nello specifico ci si è chiesti se, ai fini della proponibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti di un soggetto pubblico, i presupposti di cui all’art. 2041 c.c. rimangano i medesimi oppure sussistano delle differenziazioni.

Il coinvolgimento di soggetti pubblici e privati comporta la necessità di bilanciare interessi fra loro contrapposti: da un lato la necessità di garantire l’effettività e la pienezza della tutela privata; dall’altro l’esigenza di tutelare la finanza pubblica.

La posizione assunta sul punto dalla giurisprudenza ha subito un importante mutamento con la nota pronuncia n.10798/2015 delle Sezioni Unite che è stata più di recente condivisa e confermata (ex multis sentenza n. 16793/2018).

Per cogliere l’importanza di tale pronunciamento, appare opportuno fare un passo indietro.

Prima che intervenissero le Sezioni Unite, l’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti di un ente pubblico era ammessa a condizione che il privato depauperato provasse la sussistenza di un requisito ulteriore: il riconoscimento dell’utilità perseguita dalla PA.

Si propendeva quindi per un trattamento di favore nei confronti della Pubblica Amministrazione, giustificato sull’assunto che si trattasse di un soggetto speciale, detentore un potere pubblico e che agisse nelle vesti di Autorità per perseguire i fini pubblici prefissati ex lege.

In altri termini, si riteneva che la specialità del diritto pubblico si sarebbe dovuta mantenere anche in tema di arricchimento ingiustificato.

Il favor riconosciuto ai soggetti pubblici, si ripercuoteva inevitabilmente nei confronti dei privati che, agendo in giudizio, si sono trovati ad affrontare una vera e propria probatio diabolica.

Dovendo provare il riconoscimento dell’utilità, l’attore doveva individuare il relativo atto di volontà della PA, che sarebbe potuto essere esplicito ma anche implicito.

Trattandosi di un atto volontario, quest’ultimo sarebbe potuto essere emanato soltanto da un organo rappresentativo (e non anche tecnico).

A ciò si aggiunga che un atto di volontà è un atto discrezionale, tanto comportando una evidente limitazione del sindacato giurisdizionale, non potendo il giudice sostituirsi alle valutazioni di merito svolte dalla PA.

Come anticipato, l’indirizzo giurisprudenziale appena descritto ha subito un’inversione di rotta solo nel 2015, con la pronuncia delle Sezioni Unite.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha, di fatto, valorizzato le finalità di equità e di giustizia distributiva, superando il requisito del riconoscimento dell’utilità da parte della PA ed esprimendosi nei termini di imputabilità dell’arricchimento in capo a quest’ultima.

L’imputabilità è presunta fino a prova contraria.

In altri termini, le Sezioni Unite introducono un’inversione dell’onere probatorio: il privato che agisce per l’ingiustificato arricchimento nei confronti di una PA sarà tenuto a provare la sussistenza dei soli presupposti di cui all’art. 2041 c.c.; di contro, il soggetto pubblico sarà esonerato dall’obbligo di indennizzo solo qualora dimostri che l’arricchimento non sia ad esso imputabile.

Per completezza appare opportuno osservare come l’arricchimento non imputabile si configuri ogni qualvolta quest’ultimo possa ritenersi “imposto” dal privato, ossia quando la Pubblica Amministrazione provi di averlo rifiutato o conseguito contro il suo stesso volere ovvero, da ultimo, senza che ne potesse avere conoscenza.

In estrema sintesi, a seguito del revirement giurisprudenziale, la posizione assunta dalla Corte di Cassazione persegue un bilanciamento degli interessi contrapposti, nell’ottica di una funzione equitativa che non aggrava più l’onere probatorio del privato.

Avv. Enrico Pattumelli

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Nome *